L'Architettura per me

riflessione personale sull'architettura

#ARCHITETTURA#PERSONALE

10/7/20247 min leggere

Lo scritto che segue nasce dalla volontà di provare a spiegare cosa significa per me l’architettura, un lavoro che è più di un lavoro. Come al solito la scrittura prende il corso dei pensieri e devia rispetto ai piani iniziali. Così a questo giro il discorso che volevo generale si è spostato sul personale e va bene così.

Cerco sempre di pubblicare pensieri personali ma che non parlano di me, cioè partono inevitabilmente da me ma poi trattano temi generali. Ecco, quello che segue è un po’ più autocentrato, personale.

La necessità di filosofizzare la mia attività professionale nasce come sempre dall’insieme di tante cose.

In primo luogo, una necessità personale di filosofizzare tutto, inteso come necessità fisica di “ricercare un senso” anche quando qualcosa un senso non ce l’ha. (Scusate ma la citazione era troppo facile).

Poi, penso ci sia anche sempre un desiderio di espressione di sé che cerca nell’architettura uno spazio di passaggio verso l’esterno e quindi una dimensione artistica della professione, con una precisazione.

Io mi sento artista, non nel senso comune che colloca l’artista al di sopra della massa – che poi è un cliché, molto più spesso l’artista nella storia non è stato al di sopra, ma al di fuori – ma nel senso di avere una necessità impellente, fisica di esprimermi: quello che penso, quello che sono, quello che vivo.

È una necessità esclusivamente egoistica, cioè di cui non posso fare a meno, non perché penso che il mio contributo possa arricchire la collettività, né per ricerca di approvazione, anzi c’è una estrema fatica del “denudarsi”, esporre il proprio interno alla collettività.

È un fatto e basta, una necessità non eludibile nella mia esistenza.

Esigenza che nel tempo ho provato a collocare negli strumenti più diversi, sperimentando lo sperimentabile e ricercando le forme più affini, più adatte all’espressione: gioco, scrittura, oratoria, attività politica, disegno, musica, performance, scultura, artigianato, matematica, insegnamento, giardinaggio, video making, fotografia.

Non tutto fa parte delle arti, ma tutto fa parte degli strumenti con cui il caos che ho dentro, in continua ebollizione, può trovare valvole di sfogo. Tutto è ricettacolo della mia curiosità e della mia creatività.

Ma niente di tutto questo ha un primato. Non c’è la passione univoca per qualcosa. Certo, ci sono affinità maggiori o minori, ma non c’è il sacro fuoco che tutto sacrifica e tutto brucia al di fuori di sé.

L’esclusione mi è sempre stata difficile: come i rami della pianta mi paiono tutti preziosi, così nessuna idea mi pare del tutto assurda e nessuna espressione da abbandonare a favore di un’altra.

Michelangelo mica era pittore. Leonardo nemmeno. Erano umanisti, attori, pittori, architetti o ingegneri, scienziati sapienti.

Reggere il confronto è abbastanza dura, ma in realtà non è mai stato necessario, cioè non è la competizione che mi interessa, è poter esplorare ed esprimermi che mi interessa.

Mi interessa stare sul palco, non quanto è nutrita la platea o quanto applaude. Certo, non nego che l’applauso faccia piacere, ma non è quello il fine. Purtroppo, spesso l’applauso è necessario perché senza applauso non c’è moneta.

Nella crescita, ad un certo punto, arriva il momento della scelta: “cosa faccio da grande”. E tra le varie possibilità di espressione prima non sperimentate si è presentata l’ipotesi dell’Architettura. Nella curiosità cosmica mi è sembrato interessante.

Sicuramente l’essere cresciuto portando il nome dell’avo Architetto da tutti venerato ha inciso non poco sulla scelta. Sicuramente era una scelta più facile, incanalata nella normalità della piccola borghesia da cui vengo. Il cugino maggiore aveva intrapreso la stessa strada e anche questo aveva per me un suo fascino.

Ma senza nemmeno crederci troppo, senza studiare per il test d’ingresso. Una volta entrato all’università ho scoperto che mi riusciva bene, ero bravo.

Da quel momento l’architettura è diventata il centro della mia volontà di espressione. Un centro imperfetto, perché lo studio dell’architettura è sempre uno studio collettivo e laddove la volontà di espressione non è più solo personale, la sintesi è un esercizio di difficile compromesso che ogni tanto partorisce un prodotto di piena soddisfazione, ogni tanto no.

Poi l’architettura ha delle sue peculiarità specifiche, che è il suo bello. Ha tante sfaccettature, tanti angoli, tanti punti di vista e ogni progetto è unico e specifico. Giustamente il contesto universitario apre gli orizzonti e lambisce le varie strade mostrandole in superficie.

Così si scopre il tema della città, dell’urbanistica e dell’architettura urbana, che incrocia economia, sociologia, giurisprudenza, pensiero strategico. Poi si scopre l’architettura, gli spazi, la luce, i volumi, la materia, il ritmo, la ripetizione, il contrappunto, la tecnologia. Da qui il paesaggio, il disegno degli spazi aperti, pubblici o privati, le architetture temporanee, gli allestimenti. Oppure il disegno dell’architettura e il racconto dell’architettura, l’aspetto narrativo. Da qui gli aspetti sempre più minuti, costruttivi, ingegneristici fino alla scala dell’oggetto.

Penso si capisca che per chi fatica a fare sintesi – come me – diventa un problema, perché quella che pareva, da fuori, una disciplina ben delimitata, da dentro è un mondo i cui confini sono labili.

Moltissimi architetti, una volta finita l’università, non fanno gli architetti. A mio parere, proprio perché le competenze acquisite non sono specifiche, indirizzate ad una sola possibilità. O meglio, possono indirizzarsi in modo più specifico, ma generalmente aprono a molte possibilità: politica, insegnamento, giornalismo, cucina.

Allo stesso tempo, l’Università, e chi rimane all’interno di questa, tratta una versione teorica dell’architettura che, salvo settori specifici, non solo non ha nulla di scientifico, ma è pure una versione falsa dell’architettura.

L’architettura immaginata è affascinante ma è speculativa, una finzione, niente di diverso da un disegno figurativo qualsiasi. Può offrire stimoli intellettuali, piacere estetico, certamente anche possibilità di espressione, ma non è architettura.

C’è chi dopo il corso di architettura fa l’illustratore o il disegnatore nella sua versione contemporanea, oggi renderista, domani promptista, ed è contento così. Ci sono fumettisti che sono autori: Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Charles Schulz, Leo Ortolani, Akira Toriyama inventano un mondo e narrano storie attraverso storie e disegni. Ci sono anche autori che sono solo sceneggiatori di fumetti e altri che ne sviluppano solo i disegni.

I disegnatori dell’architettura sono come questi ultimi, non hanno interesse nella storia o nell’architettura, la loro gioia, la loro espressione è nel puro disegno.

Così l’architettura Universitaria manca della traduzione nella realtà, rimane un fumetto muto, e nella formazione manca di tutte quelle competenze che sono poi in definitiva essenziali per completarla: prima tra tutte la capacità di tessere relazioni “professionali”, ovvero dove tutto è transazionale. Frequentare certe persone e certi salotti, non perché siano gradevoli, ma utili. Ricattare per ottenere, concedere per ottenere.

Non rendere l’architettura stessa oggetto di transazione, ma mantenere il nucleo centrale, di espressione di sé, è un’abilità che credo sia di pochi.

Soprattutto perché la transazione è l’arma del più forte, vince chi può imporre le regole e se tu non sei il più forte perdi. Certo, puoi scalare le posizioni, ma se è a costo dell’espressione di sé, è un sacrificio che non solo sul lungo periodo è insopportabile, ma è proprio in principio un controsenso. Prenderne consapevolezza purtroppo non è immediato.

Non è un caso che molti architetti di successo – dove per successo non intendo successo di pubblico, ma intendo la capacità di offrire attraverso l’architettura un’espressione artistica di valore – siano in realtà architetti per hobby, ovvero che hanno potuto godere di una posizione forte di partenza non essendo ricattabili.

Non tutti, ci sono anche quelli bravi, che ce la fanno con le loro forze. Perché più bravi, ma spesso anche più abili nel compromesso, più abili a costruire un’efficace immagine di sé, perché più in linea con lo spirito dei tempi, più disposti a cercare occasioni anche in posti lontani, più disposti a sacrificare qualcosa per ottenere il risultato.

C’è un principio che non ho ancora capito se sia giusto, anche se ingiusto, o se sia solo frutto del condizionamento culturale patriarcale. Un po’ come nelle cucine la scuola impone di usare terminologia e disciplina militari, così nell’architettura la scuola impone di scegliere poche azioni forti da tradurre nel progetto come unica possibilità per un’architettura efficace. Così l’architettura giusta è netta, pulita, affilata, muscolare, e così viene promossa e sponsorizzata dall’accademia e dallo star system. Questo o il kitsch da reality.

Io penso alla mia esperienza e penso agli spazi che ho vissuto, non solo come casa, ma come piazza, città, scuola. Ciascuno di questi posti, non contaminato dalla “sporcizia” della vita, dalla smussatura del tempo, dalla morbidezza dei corpi, non sarebbe stato lo stesso. Così le scelte dipendono in larga parte da aspetti sentimentali, amorosi si potrebbe dire, e in amore le scelte costano. Così come mi è difficile decidere di potare il ramo fuori posto così mi è difficile fare una scelta progettuale.

Il mio professore di disegno, reietto del suo mondo, con accento marchigiano parlava della penombra, e di come fosse bello baciarsi con l’amata nella luce maculata e in movimento filtrata dalle foglie di un albero, piuttosto che nella luce immacolata dell’architettura.

Questa incertezza, insicurezza la chiamerebbe qualcuno, mi porta sempre a recedere un poco dalla nettezza dell’intuizione iniziale. L’espressione di me, nell’architettura, non riesce ad essere netta e precisa, ma si ammorbidisce, si “sporca”, man mano che diventa realtà.

Perché c’è un grande equivoco: l’espressione di sé, soddisfacente e piena, non necessariamente si traduce in un gesto autoreferenziale, muscolare, netto, pulito, da rivista. Tutto dipende dal sé, dal nocciolo profondo del sé, dalle convinzioni profonde che contiene, dallo spirito che anima l’azione. È per questo che l’architettura, ogni architettura, non può non essere politica, non essere filosoficamente fondata, esistenziale.

È per questo che il processo che conduce all’architettura, senza quelle competenze di cui dicevo, senza quella professionalità cinica, che tutto sacrifica nel nome del risultato, non si può tradurre in un risultato pienamente soddisfacente delle aspettative iniziali.

Le mie capacità in questo senso sono carenti, proprio, temo, in ragione del mio “nucleo del sé”. Ogni tanto sarebbe necessario tagliare corto, non ascoltare, andare oltre. In questo non sono mai stato bravo.

In sintesi, lavorare per un cliente che non condivide la mia visione del mondo, con altri professionisti o imprese che non capiscono la mia visione e produrre un risultato soddisfacente per me è estremamente difficile. Forse lo è per tutti, e alcuni sono semplicemente più decisi, più duri.

Poiché però l’architettura è anche lavoro e, per me, il lavoro non può essere un hobby, ma vuol dire necessità di un mantenimento, non nego che spesso all’inizio della professione ho posto la necessità di espressione in secondo piano, ho accettato compromessi al ribasso, troppo al ribasso pur di concludere la transazione e questo ha portato risultati mediocri e frustrazioni in misura maggiore rispetto alle soddisfazioni.

E viceversa fare architettura come lavoro, dopo-lavoro, quando all’inizio della professione facevo i miei lavori la sera, nei ritagli di tempo, a sacrificio delle relazioni, senza scopo di lucro, o meglio con la logica dell’investimento a lungo periodo, non è più sostenibile. Forse non è mai stato giusto.

Il dato di fatto è che per me l’Architettura non è solo un lavoro e non credo potrà mai esserlo. Realizzato questo, ho deciso di azzerare la precedente esperienza lavorativa, senza rinnegarla, ma superandola.

Non sono più disposto ad annacquare la parte di “espressione di me” a scapito dell’aspetto professionale e lavorativo. Non so ancora se questo può essere sostenibile o meno. È un nuovo inizio e come ogni nuovo inizio il finale è ignoto.

Però questa consapevolezza, mi dà una serenità in più, a riprendere altre strade, contaminare la mia architettura con il resto della mia vita senza paura, nutrendola di tutte quelle esperienze e forme di espressione fino ad ora tralasciate, che viceversa possono togliere pressione, aiutare ad uscire dalla logica della performance a tutti costi valorizzando l’aspetto vitale dell’espressione di sé, aggiungere il gusto del percorso al di là del risultato e così anche il risultato sono sicuro sarà migliore.