L'ignavia è il peccato capitale del nostro tempo
riflessioni generali sul presente
#FILOSOFEGGIANDO
10/7/20246 min leggere
Non è un pensiero nuovo, non è una riflessione nata oggi, è un pensiero antico, ma ogni giorno che passa trovo conferma della sua attualità.
Discorso di insediamento di Trump, saluto romano di Musk, anni di multilateralismo buttati nel cesso, migranti deportati in massa. Deportati!!! (sì, "deportation" in USA si traduce più come "espulsione" ma a me suona male ugualmente...)
L'Afd che parla di deportazioni di massa. L'Afd in Germania (!!!) che parla di deportazioni di massa!
Ma prima ci sono state le stragi a Gaza, oggi in Cisgiordania, poi la guerra civile in Sudan, poi quella in Ucraina, poi la guerra civile in Colombia, l'invasione Ruandese del Congo e via dicendo.
Poi il cambiamento climatico, lo sfruttamento dei lavoratori, i talebani in Afghanistan.
Potrei continuare l’elenco. In tutto questo ci sono video, audio, foto. Bambini mutilati, crudeltà gratuite.
Cosa accomuna tutto questo?
L’angoscia, il dolore e la sensazione dell’ineluttabilità delle cose, dell’impossibilità di incidere realmente sul cambiamento.
Certo, c'è l’impegno nel piccolo: la manifestazione per la pace, l’espressione di opinione in contesti più o meno formali, l’acquisto consapevole, l’impegno nella formazione, afflati incostanti di impegno in politica, contrappuntati da ritirate intrise di disillusione.
Ma la sensazione di fondo è che siamo troppo piccoli per incidere veramente, per contare davvero qualcosa. Supponiamo, per assurdo, che arrivi una situazione di fama o di potere: riusciremmo a incidere?
Cioè, Taylor Swift, la star unanimemente considerata maggiormente influente, ha spostato l'elezione americana?
Crediamo seriamente che Meloni abbia potere di incidere sulle sorti del mondo? Cioè, sul serio?
Ma allora la Von der Leyen? Certo, se penso a Musk, Trump, Xi Jinping, Putin, sicuramente hanno più potere, ma mai da soli.
Musk ha bisogno di Trump e viceversa. Putin ha bisogno di Xi Jinping, e Xi Jinping da solo non risolve le guerre, ma nemmeno il cambiamento climatico.
L’uomo da solo non risolve niente, ma crediamo ancora nell’uomo insieme?
Chiacchiere da bar: nel Medioevo l’uomo era consapevole di quello che accadeva nel mondo, magari anche molto lontano, ma solo tramite passaparola o racconti ufficiali, provenienti dall’autorità. E questa autorità era davvero autorevole, assolutamente credibile. Quindi, se veniva detto che la guerra era gloriosa, ci si credeva per davvero. Finché non la si sperimentava direttamente, scoprendone la verità. E questo si può dire per molto altro, fino ad arrivare alla nozione di comprensione del giusto e dello sbagliato. È molto più facile decidere il bene e il male se l’autorità è univoca nel dirlo.
Oggi, l’autorità non è più autorevole, non è unica, non è univoca.
E quindi, cosa è giusto? Anche la famiglia è in crisi, ha perso di autorevolezza. Non è detto necessariamente che sia un male, ma è un fatto.
Allo stesso tempo, abbiamo accesso a informazioni dirette, espresse con una forza non paragonabile a quella di un racconto: provate, per favore, a guardare i video dei bambini morti sotto le bombe israeliane a Gaza.
Posso capire chi non vuole crederci.
È una strategia di difesa mentale, sicuramente codificata negli studi della psiche: fuggire dalla realtà. Il punto è che la realtà non cambia.
Provate a guardare, consapevoli che state osservando la realtà e che quel bambino potrebbe essere vostro figlio, e che quel padre, quella madre potreste essere voi. Ciascuno è diverso, ma per me il dolore è straziante.
E insieme al dolore esplode la rabbia, una rabbia intrattenibile che porta a giustificare qualsiasi atto di ribellione, per quanto disgustoso. I carnefici sono animali e come tali vanno trattati. Cito il ministro della difesa israeliano dopo il 7 ottobre. È la giusta reazione? Ovviamente no, ma è per provare a spiegare come un’emozione fortissima, dirompente, spazzi via ogni razionalità.
Eppure, la vita continua sempre uguale. Si fa un respiro profondo, si prende una pillola per dormire, c’è chi va a correre o fare sport per sfogare, si smette di guardare, o non si comincia proprio. Io mangio cioccolato. Un sacco. Poi torno alla realtà. La mia realtà quotidiana, come se si chiudesse la pagina di un libro, o fosse finito un film. E quell’altra realtà non fosse poi così reale.
Ma non è così. E d’altronde, cosa ci si può fare? Niente.
Quindi, che senso ha starci troppo male?
Non so se sia sempre stato così, ma penso di no. Torniamo al Medioevo, ma anche dopo, fino alla diffusione dei quotidiani e della fotografia. La nostra collettività sarebbe stata fatta della popolazione del nostro paese, della nostra città. In molti ci saremmo conosciuti direttamente, ci saremmo visti la domenica a messa, al mercato. Avremmo avuto presente gli uni gli altri direttamente. Di fronte a un’ingiustizia esperita direttamente, avremmo potuto organizzarci, avremmo saputo con chi parlare e, nella nostra collettività limitata, avremmo potuto agire, incidere. Non che sarebbe stato facile: la storia è costellata di rivolte sanguinose soffocate nel sangue, ma avremmo avuto la sensazione di poter fare qualcosa.
Dal Settecento, con la rivoluzione industriale, le cose cambiano, gli orizzonti si allargano, cresce la consapevolezza del mondo, ma rimane di fondo quel rapporto tra autorità e informazione che porterà alla mobilitazione delle masse. Non che fosse meglio, anche quello ha avuto frutti disastrosi. La definizione del confine del “noi” inevitabilmente definisce anche un “loro”, che sia una nazione contro un’altra, che siano proletari contro padroni, una razza contro un’altra (posto che le razze non esistono). Questo ha portato ai grandi conflitti, non più locali, ma mondiali.
Ma ancora, il “noi”, permetteva al singolo di identificarsi in una collettività capace di agire.
Oggi vediamo un ritorno a questo, giustificato da una nostalgia, una difficoltà ad affrancarsi dal modello storicizzato di società: se la collettività in cui ci si riconosce è il mondo, se il “noi” si estende all’infinito, la collettività è troppo vasta e frammentata per agire, e l’individuo, in definitiva, è solo.
Ci sono molte possibili reazioni a questo: l’individualismo è una, il radicalismo è un’altra, poi c’è il mare di mezzo in cui sta gran parte dell’umanità.
Il singolo non è privo di identità, ma se l’identità è inclusiva: ogni vita è preziosa allo stesso modo, ogni punto di vista è discutibile (non necessariamente condivisibile), ogni violenza è condannabile, se operata da qualunque soggetto, ogni modello competitivo è sbagliato perché qualcuno viene lasciato indietro.
In sintesi, ogni costrutto sociale, ogni istituzione è necessaria, ma in fondo una dissoluzione sarebbe desiderabile. Come nei film di fantascienza dove l’umanità è unita perché il “loro” è alieno, e avendo un “loro” il “noi” si può estendere all’intera umanità.
La minaccia della catastrofe per un po’ ha spinto alla consapevolezza della necessità di una collettivizzazione su scala globale, con la costituzione di tutti gli organismi multilaterali: Nazioni Unite, OMS, WTO, ecc.
La cosa incredibile è che, seppur zoppicando, hanno funzionato. Non abbiamo più avuto guerre mondiali. Ma allo stesso tempo, non hanno funzionato in modo totalmente giusto ed efficace, creando una percezione di inutilità o peggio, base necessaria per l’attecchimento di racconti, spesso basati su fatti, di “sporco sotto il tappeto”, corruzione e parzialità a favore di alcuni e a scapito di altri.
Così, l’allargamento della scala, dopo una prima deriva individualista, ha portato a un reazionario ritorno del desiderio di una riduzione della collettività, a favore di una maggiore capacità di agire. In altre parole, ci siamo radicalizzati, trovando conforto nel fatto che il ritorno allo schema del “noi e loro” ci permettesse di uscire da una situazione di disagio, ovvero ci permettesse di tornare a un “uomo insieme”, a un’appartenenza a una collettività reale e percepibile, che ci desse la sensazione di poter agire e che, in definitiva, è necessario prima di tutto per combattere l’infelicità.
La definizione di queste collettività è necessariamente esclusiva e, come tale, foriera di conflitti.
In questo, rimane il disagio di non riconoscersi in queste collettività esclusive, con il risultato che, standone al di fuori, si rimane di fatto soli, nell’incapacità di agire e incidere.
Fuori dai massimi sistemi, tornando all’esperienza del quotidiano, ci penso e mi chiedo se la nostra incapacità di agire sia solo dovuta al fatto che, in fondo, le questioni non ci toccano direttamente, non sono questioni di vita o di morte, e quindi restiamo comodi in un quotidiano che, in fondo, ci sta bene.
Oppure penso che, in fondo, una riduzione dell’orizzonte del “noi” sia giusta e necessaria. Ovvero, che il destino dell’umanità e i dolori lontani siano preoccupazioni troppo grandi, e che sia giusto esserne coscienti, senza autoinfliggersi gradi di consapevolezza eccessivi, relegandoli a dimensioni secondarie dell’esistenza. Cioè che accontentarsi dell’impatto limitato che possono avere le piccole azioni (la raccolta differenziata, l’espressione di voto, gli acquisti consapevoli) non sia una scelta di ripiego, ma spostando l’obiettivo della nostra azione a una collettività più ridotta, locale, ovvero alla possibilità di incidere sui dolori e sui disagi accessibili, di chi ci è vicino, anche se ci sembrano irrilevanti su scala globale.
In altre parole, che sia necessaria una riduzione delle informazioni a cui ci sottoponiamo, per evitare che le strategie di difesa nei confronti dei problemi sui quali non possiamo agire direttamente ci portino a diventare insensibili rispetto ai problemi sui quali realmente potremmo incidere.
Già questi sono spesso troppi da gestire senza ansia, a fianco del proprio quotidiano, e spesso il contributo per essere sostenibile per il singolo ed efficace nella sua azione deve tradursi in un intervento collettivo con il coinvolgimento di una comunità, anche ridotta. Per non cadere in ulteriori sensazioni di impotenza, bisogna ulteriormente limitarsi nell’obiettivo, a una riduzione dei sintomi, valorizzando l’effetto increspatura che ogni azione, di per sé, può portare.
Rimangono, viceversa, le scelte di vita radicali, e per fortuna c’è chi, nonostante tutto, le fa, come chi parte come medico per Emergency o Medici senza frontiere. Scelte che sicuramente aiutano a cambiare un po’ le cose e che, penso, possano portare, finalmente, a dire a se stessi: "più di così non potevo fare".
In ultimo, rimane la divina provvidenza, se ci si riesce a credere