Patriarcato e rivoluzione
la lotta si vince solo a partire da noi
#FILOSOFEGGIANDO#SOCIETÀ#POLITICA
10/7/20247 min leggere
Il patriarcato esiste. Riconoscere questo dato di fatto è il prerequisito fondamentale per quello che segue.
Non ho la pretesa di dare un contributo filosofico originale, né sul tema del patriarcato né, tantomeno, della rivoluzione. Ci sono sicuramente studiosi che hanno trattato i temi in modo più organico, scientifico e approfondito.
Quello che mi interessa è unire i puntini ed evidenziare come questo tema riguardino me - maschio etero - come incida sul mio quotidiano e come, in definitiva, questo abbia ricadute a livello globale.
Il “tema” del patriarcato non ha a che fare con un rapporto di equilibrio tra i sessi. Non solo, per lo meno.
La lotta al patriarcato non è una lotta solo femminista, anzi, pensarla così è, a mio parere ovviamente, il modo più sbagliato di impostare la rivoluzione. Perché abbattere il patriarcato è un atto rivoluzionario.
È, in tutto e per tutto, il sovvertimento di un sistema di potere consolidato da parte di una collettività oppressa.
Come ogni rivoluzione, ci saranno ovviamente delle vittime, alcune delle quali prima erano carnefici e altre no, erano semplicemente componenti di un ingranaggio.
Come per ogni rivoluzione, seguirà una restaurazione, ma non tutto va perso.
Si torna, dunque, alla definizione del noi? Qual'è la collettività oppressa?
Femmine contro maschi?
No, i maschi sono tanto vittime del patriarcato quanto le femmine. Senza questa presa di coscienza da parte di tutti, maschi e femmine, la rivoluzione è persa in partenza.
L'errore a mio parere è cercare l'oppressore. Il noi contro voi, il noi contro loro.
Tra l’altro, questa contrapposizione è già di per sé escludente: taglia fuori tutto il “di mezzo” tra maschi e femmine che, in tutti questi anni, ha lottato per rivendicare una pari dignità che, ugualmente a tutte le minoranze, merita.
La storia insegna che la rivolta verso l’oppressore fallisce se non diventa lotta a un sistema, ovvero se non sovverte l’ordine sociale preesistente sostituendolo con uno migliore.
Cioè, la rivoluzione fallisce se alla dittatura fascista sostituisce la dittatura del popolo. I presupposti sono differenti, sicuramente, ma gli esiti tristemente simili.
La rivoluzione avviene quando al modello dittatoriale si sostituisce il modello democratico.
Dopo funziona tutto? È tutto bello o tutto migliore? No, non abbiamo ancora trovato e adottato un modello sociale perfetto, ma questo non vanifica i progressi fatti.
La tentazione della restaurazione è sempre in agguato e sempre lo sarà: “Era meglio prima.”
Il pensiero progressista è l’esatto contrario: “Il meglio deve ancora arrivare.”
È per questo che vale la pena lottare.
Quindi, non è tanto questione di una collettività oppressa contro un oppressore, quanto di una collettività oppressa contro il sistema sociale che ne determina l’oppressione.
Tornando al patriarcato, questo cosa significa? Significa, innanzitutto, definire chiaramente in cosa si traduce un sistema patriarcale.
Dalla Treccani, il patriarcato è “In antropologia, tipo di sistema sociale in cui vige il ‘diritto paterno’, ossia il controllo esclusivo dell'autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo.” Cercando poi la definizione sul vocabolario, sempre Treccani, si trova “Complesso di radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto dagli uomini, spec. verso le donne.”
Sottolineo, traduco e sottoscrivo: il sistema patriarcale è un sistema sociale verticale, in cui il controllo dell’autorità è esercitato per diritto di eredità, ovvero in modo socialmente accettato e al di fuori di criteri di merito, attraverso atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta.
Ho volutamente escluso il tema di genere.
Non perché non esista, tutt’altro. Esiste eccome.
L'ho escluso perché, affinché la lotta sia realmente condivisa e possa avere speranza di successo, è fondamentale che io, maschio etero, mi percepisca come vittima di questo sistema.
Ovvero, che anche io capisca in che modo il sistema mi opprima e quali vantaggi avrei grazie a un cambiamento di paradigma.
Appartenere a un "gruppo privilegiato" non significa per forza essere vincitori.
Io sono vittima del patriarcato perché il modello educativo in cui sono cresciuto mi impone doveri morali a cui non sono tenuto, almeno non esclusivamente.
Se la condanna della donna tradizionale è avere come unico scopo l’essere madre a tutti i costi e al di sopra di tutto, la condanna e lo scopo principale del ruolo di uomo-padre tradizionale è quello di proteggere e sostenere economicamente la propria famiglia.
La mia realizzazione personale (secondo la società) è da cercare lì.
Il modello sociale e relazionale del patriarcato - tanto tra uomini e donne, quanto e soprattutto tra uomini e uomini - è un modello competitivo, predatorio, verticale: devo flexare, far vedere che “ce l’ho più grosso”, per scalare la piramide fino al vertice. Questo vale in famiglia, scalando alla posizione di capo famiglia ma questo vale anche nella società intera: nello sport, nel lavoro, ecc.
Questo vale per i ragazzini e per gli adulti. Vale per ogni genere di proprietà: soldi, macchine, moto, armi, casa, orologi , gioielli, vini, opere d'arte
Nella visione patriarcale, anche le relazioni diventano proprietà, cose su cui misurarsi: la donna, la famiglia, i follower.
Tutto è dentro una logica di conquista: paradossalmente tante più donne ha un uomo, tanto più è dipinto come desiderabile per altre donne, tanto più sarà onorata la donna che lo farà proprio. Tanto più l'individuo sarà ammirato ed invidiato dai concorrenti.
Non è la relazione al centro della desiderabilità, non la cura, non l'attenzione all'altro. Tutto è competizione verso il vertice.
Si capisce che il sistema, così, ha pochi vincitori e molti sconfitti. Ma allora perchè per noi maschi dovrebbe essere conveniente?
Io mi sono fatto l'idea che il motivo sia lo stesso per chi subisce violenza agisce violenza.
Nel patriarcato per ogni maschio sconfitto c'è un paracadute, nel patriarcato un dominio minimo è garantito. Il nucleo famigliare minimo: nel quale si può dominare la moglie ed i figli come si è dominati dalla società.
Ma capite che dobbiamo ribellarci? Non può essere un dominio infelice a risarcimento per i torti subiti l'ambizione della nostra vita.
Poi questo piccolo dominio non è mai sicuro fino infondo. La società può sempre mettere i bastoni tra le ruote e allora il maschio patriarcale non è attrezzato tanto bene.
Sono vittima del patriarcato perché non ho strumenti per affrontare la frustrazione del fallimento e il dolore. Hai detto poco.
Se perdo il lavoro o se il lavoro non mi fa guadagnare abbastanza per le mie aspettative o quelle della mia famiglia, o della mia partner, è un problema.
Le amicizie, a causa della logica competitiva, spesso sono meno strette, offrono meno intimità, meno supporto emotivo, e se violo le “norme” di mascolinità sono più soggetto al rischio di finire vittima, di altri come me, ma più duri.
Nel modello patriarcale se attraverso un dolore, l’unico strumento che ho è indurire la corazza o crollare.
L'ira è giustificata. La fragilità, la debolezza il conforto non sono permessi.
Così l’empatia uccide, la cura degli altri è una tortura inaffrontabile.
Agli uomini viene diagnosticata una depressione clinica circa la metà delle volte rispetto alle donne, ma ci sono quattro volte tanti suicidi.
Grazie, Lucio Corsi.
La disoccupazione femminile è maggiore di quella maschile, lo sappiamo e sappiamo che spesso le donne hanno difficoltà maggiori ad essere assunte in relazione alla maternità e a quanto ne segue.
In altre parole, una donna che voglia avere soddisfazioni in ambito lavorativo, che voglia fare carriera, non necessariamente per una mera scalata sociale, ma anche semplicemente per una propria realizzazione personale, deve sacrificare la sua vita affettiva e familiare.
Ma non è forse lo stesso per noi uomini? Non è a prezzo del sacrificio delle nostre relazioni extra-lavorative, puramente affettive e familiari, che possiamo avere successo nel mondo del lavoro?
È esattamente lo stesso. “Semplicemente,” la società ci dice che la nostra felicità sta in quello. Non solo, la società patriarcale ci dice che è nostra responsabilità applicarci in quello per garantire sicurezza e benessere materiale alla nostra famiglia.
Anzi, se dedico troppo tempo alla famiglia, magari per compensare un maggiore impegno lavorativo della mia partner allora vengo definito mammo. Fuori ruolo, da mammo a invertito la distanza è breve.
Ma anche se valuto la mia affermazione professionale come secondaria rispetto ai miei amici, in fondo sono un fannullone, qualcuno che non è stato capace di diventare grande.
Perché sì, diventare grande nella nostra società patriarcale, di nuovo, significa capire che le cose importanti sono quelle che si contano e che, di nuovo, più ne hai, meglio è perché la competizione è feroce e perché sono quelle che lascerai in eredità ai tuoi figli: donne, figli, soldi in banca, case, auto, anni, ecc.
Il valore delle relazioni non è quantificabile. Tante relazioni vogliono dire poco senza contenuto.
E, se ci penso bene, la mia felicità, quella vera, la posso trovare lì.
La felicità non è quantificabile. Non si può davvero fare gara di felicità.
Fare a gara delle "cose che si contano" è solo la simulazione fasulla di una gara di felicità, è una bugia.
Un'eredità di denaro può essere preziosa, certamente, ma un'eredità d'amore è incommensurabile
Il sentimento di libertà che si prova in una relazione gratuita è impagabile. Il potersi fidare, il poter contare su qualcuno, il sapersi importanti per qualcuno: lì sta la felicità. Il potersi esprimere senza competere, il poter trovare tempo per ciò che non è utile, quantificabile, misurabile.
Allora qual'è l'errore se le relazioni vengono, per me, prima del lavoro? In un ribaltamento di prospettiva posso dire che non è giusto che sia solo mia responsabilità, solo mio dover provvedere al benessere materiale della mia famiglia.
È mio diritto avere tempo per coltivare la relazione con mia moglie, la mia compagna, i miei amici, con i miei figli, potermi occupare dei miei cari quando ne hanno bisogno, coltivare le mie relazioni e le mie aspirazioni al di fuori di una logica competitiva.
Non si tratta di una rinuncia a privilegi maschili: finché il discorso è questo, non può far presa.
Si tratta di riconoscere che tali “privilegi” non hanno valore reale, sono solo un ostacolo verso il benessere e, in definitiva, la felicità. Si tratta di sovvertire la scala di valori.
Se la dimensione socio-relazionale è sempre in secondo piano rispetto alla dimensione politico-economica, automaticamente si giudicherà di minor valore chi si occupa dell’una a scapito dell’altra e viceversa, mantenendo lo status quo.
Si tratta di riconoscere una diversità di ambizioni e aspirazioni che non può essere una questione di genere, ma di attitudine. Si tratta di riconoscere che l’una non può prevaricare l’altra, per il bene e la felicità comune.
Dobbiamo decostruire molto di ciò che ci è stato insegnato, perché servono nuovi ideali di maschilità, nuovi immaginari, nuovi comportamenti e nuove credenze. Solo attraverso l'acquisizione di questa consapevolezza da parte nostra la rivoluzione può avere successo.
Non dobbiamo salvare le donne, dobbiamo salvare noi stessi.
Spesso, noi uomini siamo il problema di noi stessi. Questo vale sempre, ma in particolare riguardo al patriarcato.
In ogni scambio non amicale, l’interlocutore ci tiene a dirti “È tanti anni che lo faccio,” come se automaticamente il tempo passato a fare una determinata cosa fosse sufficiente a indicare quanto bene si sappia fare quella cosa. Quante volte l’anzianità è autorità automaticamente, a scapito di capacità e competenze?
Anche questo è patriarcato. Autorità per eredità. Mantenimento dello status quo. Pensiamo a quanto spesso le nostre frustrazioni nascono dalla necessità di aderire a modelli sociali imposti ma non condivisi. Quanto sarebbe meglio se le cose venissero fatte perché è meglio, e non perché “si è sempre fatto così.”
Il dramma è che, quando è il nostro turno nella posizione di potere, siamo i primi a rivendicare lo stesso modello a cui siamo stati sottoposti noi, anche solo verso il povero collega più giovane o verso nostro figlio, e viviamo come sopruso il mancato godimento della posizione di rendita.
Conformarsi è sempre la strada più sicura: se non per il successo o la propria piena realizzazione, per una vita più tranquilla.
Dopo tutto questo mi pare chiaro che i good guys non hanno a cuore la mia felicità, sono solamente interessati a salvaguardare il proprio turno nel giro di giostra di cui sono fanaticamente innamorati, e il sistema perpetua sé stesso.
Lottare contro il patriarcato è anche lottare contro lo status quo, contro la competizione a tutti i costi e a scapito di tutto, contro la logica del più forte e in definitiva, contro ogni fascismo.